Hip Hip Urrà

Ho chiesto a CHAT GPT mentre in Bus BRT5 ascolto Come ti America dei Gibson Brothes: Cosa è esattamente un fenomeno HYPE e perché si genera. Come sarebbe stato o come si sarebbe connaturato lo stesso fenomeno 200 anni fa o 50 anni fa. È possibile che HYPE sia un gorgo emozionale, emozionante come una calamita surreale nel suo essere reale?

Mi ha risposto così:

Domanda bellissima e molto densa, Salvatore — la tua formulazione è quasi già un piccolo saggio poetico.
Provo a risponderti in modo articolato, mantenendo la dimensione sia concettuale sia emotiva che la tua domanda suggerisce.


🌊 1. Che cos’è un fenomeno “HYPE”

Il termine hype deriva dall’inglese hyperbole (esagerazione).
Oggi indica un’attenzione collettiva amplificata — spesso sproporzionata — verso qualcosa: un film, un artista, un prodotto, un’idea, una tecnologia.
È una bolla percettiva e affettiva che si crea intorno a un oggetto culturale o simbolico, alimentata da:

  • Media e social network, che moltiplicano e accelerano la diffusione;
  • Aspettative emotive, che precedono spesso la realtà dell’esperienza;
  • Desiderio di appartenenza, perché seguire ciò che “fa tendenza” ci lega agli altri.

In sintesi: l’hype è l’onda emozionale collettiva che precede e a volte sostituisce il reale contatto con la cosa stessa.


🌀 2. Perché si genera

L’hype nasce dall’incrocio di psicologia umana e strutture di comunicazione:

  • L’essere umano tende naturalmente a imitare (meccanismi di contagio emotivo e imitazione sociale);
  • I media moderni creano risonanza e accelerazione (ogni emozione condivisa diventa epidemica);
  • Il desiderio di “non restare indietro” genera urgenza e intensità: un effetto valanga, un campo magnetico emozionale.

Da qui il senso del tuo “gorgo emozionale”: l’hype attira, trascina, eccita — e può inghiottire la capacità critica.
È come se il reale venisse “risucchiato” dentro un vortice di aspettative, dove il possibile diventa più reale del reale stesso.


3. Come sarebbe stato 200 o 50 anni fa

• 200 anni fa

Nel XIX secolo l’hype esisteva già, ma lento, locale e fisico.
Pensa alla folla che correva a vedere le prime fotografie di Daguerre, o alla mania di Byron in Inghilterra: il poeta come star moderna.
La differenza è che l’eco si propagava attraverso giornali, salotti e voce, non attraverso pixel.
Era una forma di febbre culturale comunitaria, non ancora globale.
Un hype “di carne e carta”.

• 50 anni fa

Negli anni ’70 l’hype diventa mediatico, televisivo, pubblicitario.
Pensa ai Beatles o a Star Wars: l’entusiasmo era già planetario, ma richiedeva giorni o settimane per diffondersi.
Era un rituale collettivo: ci si radunava davanti allo schermo, si faceva la fila al cinema, si condivideva fisicamente l’attesa.
Oggi invece l’hype è istantaneo e volatile, come una scarica elettrica che attraversa il mondo in pochi minuti.


4. L’HYPE come calamita surreale

Sì, bellissima immagine.
L’hype è una calamita surreale nel suo essere reale: attira emozioni e desideri come ferro invisibile.
È un campo di forze affettivo e simbolico, dove la realtà si piega sotto il peso dell’aspettativa.
Il reale perde consistenza, diventa spettacolo del possibile — come in una fiaba che si crede vera per il solo fatto che la raccontiamo insieme.


In sintesi poetica

L’Hype è il battito accelerato del desiderio collettivo.
È la febbre che precede l’incontro, il miraggio che si fa esperienza.
È reale nel suo effetto, ma surreale nella sua sostanza:
un sogno condiviso che plasma il mondo per qualche istante.

Sarà

Isabella Rossellini, intervistata da Francesca Fagnani per il programma Belve, ha detto: “Sono riconoscente a me stessa di aver saputo vivere i diversi capitoli della mia vita.

Questa frase mi risuona profondamente. Temerario è il mio atteggiamento, temerario il mio pensiero; temeraria ogni azione, ogni sviluppo di ogni pensiero.
Cammino un po’ zoppicante, da un po’ di tempo: la gamba è forse stanca. Ma questa stanchezza io la sfido, la ribalto, la trasformo in motivazione — nel desiderio di capovolgere il dolore in proposizione, in creazione.

Ho incontrato stamattina Silvio: in un primo momento ha tentato di distruggere, di radere al suolo questo mio impegno, questa riappacificazione con la mia vocazione. Poi, trovando davanti a sé una difesa fatta di entusiasmo, di capacità, di orgoglio, di genuinità e dignità, ha trasformato l’attacco in un abbraccio. Così è meglio che accada.

Mentre scrivo, vedo nel parco giochi vicino casa una bambina che urla, giocosa, verso la madre. La madre la spinge sull’altalena, ma il suo sguardo è altrove: sul telefono. Sarà un mondo di distrazioni, a portata di mano. Sarà un mondo di immagini doppie. Sarà un mondo in cui la complessità del sentire non trova più riferimenti concreti — e si perde.

Eppure, eccoci qui. A camminare, anche se zoppicando, verso progetti, verso concretezze che — nell’ambito culturale e teatrale — potrebbero sembrare effimere, ma che invece scuotono gli animi e creano nuove fonti di curiosità, di armonia, di nutrimento.

Mentre scrivo, ricordo l’incontro con Salvo, con il quale portiamo avanti un progetto dedicato alle scuole. Abbiamo deciso di condividere lo spettacolo con gli studenti — anzi, gli spettacoli, in tante scuole — per farne occasione di confronto e ispirazione.

E così è: il dolore si scioglie e si trasforma in potere.

La formula che sto scrivendo, elaboro e condivido da anni m, è un diario, un navigare di sensazioni: scrivo per maturarle. Perché ogni seme è un frutto, ogni parola una poesia, ogni sentire un’invocazione.


Frutta

Forse, la vera bellezza non è né nella piazza né nel silenzio…
ma nel respiro che li unisce.

C’è chi grida per cambiare il mondo, e chi tace per ascoltarlo —
ma entrambi, a loro modo, lo stanno amando.

La libertà non è una bandiera da sventolare né un tempio da custodire:
è un gesto, un passo, una scelta che si rinnova ogni volta che incontriamo l’altro senza smettere di cercare noi stessi.

Allora sì, l’Italia è bella,
quando sa essere insieme folla e coscienza,
voce e ascolto,
cuore che batte per il mondo intero. ❤️🇮🇹

Avamposto

🌊 Quando sono su una barca — piccola o grande che sia — significa che mi trovo su un mezzo di navigazione, diretto verso un porto.
Il porto è il luogo dove si fanno provviste, si studia il prossimo viaggio, si pianifica la rotta, si controllano le condizioni atmosferiche.
È anche il momento in cui si può integrare o sostituire parte della ciurma, cioè le collaborazioni, le persone che condividono un progetto o uno scopo comune.

Durante la navigazione, in mezzo al mare, può capitare di incontrare altre barche, altri viaggiatori.
A volte si procede insieme per un breve tratto, altre per un lungo periodo. Altre per sempre. Il “per sempre” è una chimera, visibilio.
Ci si osserva, ci si avvicina, si condividono momenti di rotta.
Anche quando si è in porto, si possono avere gli stessi fornitori, gli stessi punti di riferimento.

Poi ci sono le magie, più o meno grandi. E anche le illusioni.
Ma con il tempo, le magie e le illusioni si possono stemperare.
Apprezzo questo processo, il mio, il tuo, il nostro, quasi come un dovere, soprattutto verso chi è capace di creare magie, metafore di magie, spettacolo.

Il viaggio è una continua sollecitazione, una continua scoperta —
anche quando sembra che tutto sia già stato scoperto, confezionato, “liofilizzato”, decontestualizzato.

In questo senso, la scoperta manca nella politica: perché la politica è un viaggio già compiuto, un percorso precedente.
L’antipolitica, invece, nasce dove le opportunità si aprono a nuovi itinerari.

E continuo a scrivere, imponendo il mio pensiero a un lettore che mi raggiunge in qualche modo.
Sta compiendo la mia stessa rotta?
Segue un percorso logico simile al mio?

Tra barche vicine ci si fa sentire: si urla, o si usano segnali acustici.
Google mi spiega che “in navigazione i dispositivi più comuni per emettere suoni di segnalazione sono la tromba, il corno da nebbia e la campana.
I suoni prodotti vengono definiti segnali acustici nautici e servono per segnalare manovre, la posizione della nave o emergenze.”

Scrivere, allora, è come segnalare la propria traiettoria, manifesto di solidarietà e lavoro.
La meta, per molti, è la stessa: l’indipendenza, creare valore, elucubrare per sorridere.

La contemplazione è il sentire di ogni istante dedicato al sentire successivo.
Attraverso la preghiera, ci sostiene l’universo e l’amore che in esso è contenuto.

Avamposto di un testo teatrale

CT Fringe Off 2025

Catania Fringe Off 2025 non è stato soltanto lo spazio in cui ho rappresentato il mio spettacolo L’altro ieri con Alice Canzonieri e Aurora D’Arrigo. È stato, prima di tutto, un luogo di incontro, di scoperta, di immersione nel lavoro degli altri. Un’esperienza corale fatta di corpi, parole, improvvisazioni, accenti, musiche e soprattutto di umanità in scena. Ecco, allora, il mio piccolo diario di viaggio tra gli spettacoli che ho avuto la fortuna di vedere.


🎪 3CLOWN – Compagnie Les Blues de Travail (Francia)

Tre clown miei coetanei. Li guardo e sento una profonda ammirazione per la resistenza e la dedizione con cui continuiamo a difendere l’arte in età matura. Laurent Barboux, con il suo sax, prima di ogni spettacolo si allena e suona con una disciplina quasi ascetica, questo mi piace moltissimo, è colossale segno di rispetto. Lo spettacolo, una raccolta di entrate clownesche tratte dal libro di Tristan Rémy (che ho con me dal 1980), è un viaggio nella storia del clown moderno: Chocolat, Grock, Zavatta, i Fratellini… figure leggendarie della comicità e della dolce malinconia. Un inno alla semplicità e alla gioiosa artigianalità del ridere. Da questo spettacolo porto in regalo l’amichevole collaborazione alla Sala Hernandez e un senso di leggerezza che profuma di un qualcosa che mi appartiene.


🌊 POSTDRAMATIC – Experimenta Art Company (Grecia)

Una nuotatrice urbana alla ricerca del suo mare. Thekla Gaiti, autrice e interprete, ci guida in un mondo frammentato, assurdo, teneramente infantile. Trentacinque piccoli atti che scorrono come un album di appunti, in un flusso continuo di sensazioni e ipersensazioni. C’è la ricerca in questo spettacolo, il desiderio di uscire da schemi, ideologie e provocare: una leggerezza poetica che sembra sfiorare la favola, anche quando parla di smarrimento. Ne porto via lo stupore che diventa una parola: candore.


🌿 L’OMBRA DEL GELSOMINO – Compagnia Art Revolution (Ispica)

Un titolo che mi tocca da vicino. Il gelsomino è un profumo della mia memoria: i giardini di mia nonna, i terrazzi dei miei genitori, i luoghi dell’infanzia dove la sera si riempiva d’estate e di voci. Per me è sempre stato simbolo di amore, famiglia, convivialità, storia personale. Eppure, in questo spettacolo, il gelsomino getta un’ombra — l’ombra del cuore oscuro della società. Alessandro Romano, autore e regista, costruisce una partitura scenica che indaga la fragilità e la paura del diverso, ma anche la solitudine come condizione esistenziale del presente. Il testo si muove in una zona crepuscolare, dove la bellezza e la violenza convivono, dove il profumo del gelsomino non è più promessa ma memoria, eco, assenza. Il risultato è un viaggio nel malessere, inteso non come abisso ma come possibilità di conoscenza, come momento in cui si può riconoscere la propria ombra e trasformarla in consapevolezza. Mi ha colpito la delicatezza registica di Romano: la scena si impone; lascia che le emozioni emergano per stratificazione, lavora con gli effetti che il teatro offre. Il ritmo è rituale, e gli attori — Alice Canzonieri, Federica Guerrieri, Giovanni Pelligra — si muovono con precisione e grazia, tessendo un intreccio fatto di sospensioni a volte tuonanti. Scrivo di questa produzione come atto d’incoraggiamento verso la luce, una luce che non è effetto di scena ma conquista interiore. Nel titolo, “ombra” e “gelsomino” si fondono in un ossimoro perfetto: la purezza che incontra la notte, la bellezza che si piega all’oscurità senza spegnersi. E forse, in questo gesto poetico, c’è la vera forza dello spettacolo — ricordarci che anche ciò che profuma di buono può nascondere un dolore, e che solo attraversandolo possiamo davvero ritrovare il senso della luce.


💭 ERO CHIARA – di e con Chiara Alonso

Un’autrice giovane, autentica, libera. Ero Chiara è un viaggio biografico, una confessione in tre quadri familiari: lo zio, la nonna, il fratello. Chiara Alonso si espone, si mette in gioco, senza paura di mostrarsi fragile, insofferente o ironica. Ne parliamo dopo lo spettacolo e mi racconta delle sue collaborazioni, delle influenze (Milo Rau, Sergio Blanco, Liv Ferracchiati). La sua libertà espressiva mi entusiasma: è la spontaneità il cuore pulsante di questo lavoro. Per Chiara grandi palcoscenici.


⚡ IO//ODIO – Santibriganti (Moncalieri)

Lo avevo intravisto al Village delle Ciminiere e mi aveva colpito la sua forza brutale. In scena, Luca Serra Busnengo dà voce a un personaggio intriso d’odio e di ossessione. Ma l’odio, qui, diventa strumento di riflessione, e perfino di amore. Valentina Diana firma un testo tagliente, che dialoga con la telecamera più che con il pubblico, creando una doppia platea, reale e virtuale. Un lavoro che mette a nudo il male contemporaneo, ma con una poetica che trasforma la rabbia in pensiero.


💃 FREEVOLA – di e con Lucia Raffaella Mariani (Trento Spettacoli)

Lucia Raffaella Mariani porta in scena una donna e le sue molte versioni.
Stand up, canzone, confessione, provocazione: tutto si riflette in un gioco di specchi tra chi vive e chi si osserva vivere, tra la sorvegliata e la sorvegliante. Mi colpisce la sua energia, la sincerità del gesto, il desiderio limpido di trovare un posto nel mondo del teatro. Nel dialogo che segue lo spettacolo, le suggerisco di esplorare il non-sense, quella forma di teatro dell’assurdo capace di trasformare il caos in linguaggio, la disarmonia in senso. Un territorio dove la logica si frantuma e l’uomo moderno si riflette nella propria alienazione, amplificandola e sublimandola. In lei intravedo il segno di una grande attrice, una luce che mi fa pensare a Lucia Poli, per intelligenza ironica e libertà interpretativa.


🥊 DER BOXER – di e con Michele Vargiu (Sassari)

Un monologo vibrante dedicato a Johann Trollmann, pugile zingaro e campione di Germania nel 1933. Una storia vera, potente, che diventa lezione di umanità. Michele Vargiu domina la scena con ritmo e cuore, accompagnato dalle musiche dal vivo di Gianluca Dessì. Uno spettacolo necessario, civile, che ricorda come la dignità possa resistere anche davanti alla barbarie.


☄️ BENVENUTA CATASTROFE – Dopolavoro Stadera

L’ho visto in piazza Scammacca, senza luci di scena. Luigi Vittoria, diretto da Mario Gonzalez, affronta con ironia la catastrofe climatica. Un monologo intenso, surreale e profetico. Bravo! In lui rivedo qualcosa del Carmelo Bene più ispirato, quello che trasforma il caos in rivelazione. Gli auguro di continuare a spingersi oltre, verso i classici e oltre i confini. La commedia dell’arte che esprime può diventare cambiando direzione può diventare una sontuosità che esprime la tragedia nel gesto migliore. Vittoria domina la scena con una fisicità consapevole, un corpo che si fa linguaggio, oscillando tra giullare e profeta. In lui ho rivisto qualcosa del Carmelo Bene più ispirato: quello capace di trasformare il caos in rivelazione, il silenzio in musica, la parola in eco di sé stessa. Bene, partito in sordina, ha attraversato il teatro italiano con un cinismo lucido e spietato, demolendo ogni forma di rappresentazione per restituirle una voce nuova, quella del teatro come esperienza totale, quasi mistica. Non so se Bene abbia mai incarnato il giullare tipico di Dario Fo – figura popolare, politica, diretta – ma certamente ne ha condiviso il destino: farsi voce di un teatro che continua a parlarci, ancora oggi, come una ferita aperta e necessaria. Luigi Vittoria sembra raccogliere proprio questo testimone, giocando tra la parola e il gesto, tra l’immediatezza della commedia dell’arte e la profondità del dramma contemporaneo. La sua è una recitazione che, se spinta oltre, può diventare sontuosa nel senso tragico del termine: una bellezza che nasce dal gesto, dal respiro, dalla deformazione della realtà in poesia. Gli auguro di proseguire su questa strada, di spingersi verso i classici, verso nuove zone di rischio e di libertà, perché dentro il suo lavoro si intravede già un teatro in trasformazione, vivo, pulsante, necessario.


✨ TROPPO BELLA PER ESSERE VERA – Pequod Compagnia/Teatro E (Trento)

Scritto da Massimiliano Bucchi e diretto da Maura Pettorusso, Troppo bella per essere vera è un monologo che fonde ironia e denuncia, leggerezza e profondità, scienza e bellezza. Sul palco, la giovane Maria Vittoria Barella dà corpo a una donna che attraversa mondi apparentemente inconciliabili: la femminilità e la ricerca scientifica, l’immagine e il pensiero, la modella e la scienziata. La scena “scarna” si trasforma di continuo, come una metamorfosi interiore. Dalle prime parole si percepisce la grinta, la padronanza del ritmo e l’eleganza nel passare da un registro all’altro: ironico, sarcastico, emozionale. Il percorso culmina in un finale visivo e potente — coriandoli dorati spinti da un grande ventilatore — che richiama la spettacolarità di un set fotografico, quasi una celebrazione del glamour che, nelle corde di Maria Vittoria, diventa un linguaggio di autoaffermazione. La regia di Pettorusso costruisce un meccanismo calibrato, la voce e gli ammiccamenti, la gestualità si incastrano come elementi di un esperimento sociale. Ne risulta una lavorazione arguta e necessaria sul pregiudizio, sulla difficoltà per una donna di essere riconosciuta nella sua complessità senza essere ingabbiata in un solo ruolo. L’attrice interpreta la contraddizione tra apparenza e sostanza con intelligenza e grazia, senza mai forzare l’emozione, ma lasciando che emerga naturalmente, come un battito. C’è, in Maria Vittoria, una promessa scenica autentica. La sua presenza è precisa, il suo sguardo lucido e ironico, la voce modulata con sensibilità. Per questo, se potessi suggerirle un futuro ruolo, immaginerei per lei una Rapunzel teatrale: un monologo in cui gli altri personaggi non esistono se non come sagome di cartone, simboli vuoti, proiezioni di un mondo di fiaba e sostanza. Sarebbe un modo poetico per continuare la ricerca iniziata con questo spettacolo: raccontare la liberazione dall’immagine, la conquista dello spazio interiore, il coraggio — e con essi, le catene dell’interpretazione.


📰 NOTTE TEMPO – Il Milione (Pavia)

Ultimo spettacolo del mio percorso, al Fab di Catania. Pietro De Nova e Maurizio Zucchi ci portano dentro la macchina del giornalismo, tra stampa e manipolazione, etica e spettacolarizzazione. Confesso: ero stanco, dopo ventisei giorni di Fringe, e ho perso qualche filo. Mi resta l’immagine di due attori generosi, che con ironia e passione raccontano un mestiere in bilico tra verità e finzione.


💫 Riflessione finale

Dopo giorni di teatro, parole, incontri, posso dire che il Fringe di Catania prededuto da Fringe Milano Off è vera energia propulsiva. Un serbatoio di creatività, di professionalità, di cultura teatrale viva. Serve alla nostra società come ossigeno: per sviluppare nuovi talenti, per aprire spazi di libertà, per portare il teatro tra le nuove generazioni. Il teatro è questo: una disciplina in crescita, un modo di unire le forze e dare valore alla luce che ciascuno porta dentro.

Sedia sdraio

La luce nel pieno buio. Sul senso del sentire, dell’invidia e dell’arte come trasformazione della realtà

Approfondire un sentire, per me, è un obbligo di vita. Perché in ogni pensiero — anche quelli più contorti, ribelli, amorevoli, energici, distruttivi o costruttivi — c’è sempre una risposta a ciò che proviamo, un’elaborazione che ci restituisce qualcosa di noi.

Non so mai distinguere chiaramente quale sia lo Yin e quale lo Yang della mia vita. Procedo attraversando tutte le sfaccettature possibili, con coraggio. E quando mi trovo davanti a un vicolo cieco o, al contrario, su una strada di campagna che si apre su un panorama mozzafiato, per me è la stessa cosa. Entrambi i viaggi mi appartengono, e li vivo con la stessa gioia: la gioia di una libertà che mi porta a ritrovarmi, sia in luoghi protetti sia in zone d’ombra.

Perché la gioia, in fondo, sta nella trasformazione — in quel meccanismo chiamato saggezza, che ti fa trovare la luce anche nel pieno buio.

Ieri ho attraversato un buio che voleva dichiararsi tale, e che ho trasformato in consapevolezza.

All’improvviso la pressione mi è salita, come un segnale del corpo che voleva distogliermi. Ho iniziato a camminare, a cercare risposte, e lungo quel cammino si è affacciata una domanda: cosa distrae di più, l’invidia o l’arroganza?

A prima vista sembrano sentimenti opposti. L’invidia nasce nel momento in cui osserviamo il successo degli altri; l’arroganza, invece, quando crediamo di sapere o di valere di più.
Ma entrambe, in fondo, sono distorsioni dello stesso sguardo: lo sguardo che dimentica sé stesso.

Mi interrogo: quanto di quel risultato altrui mi appartiene davvero? Quanto il mio lavoro, diretto o indiretto, ha contribuito a costruirlo?
Sono riflessioni ampie, sottili, ma per me visceralmente vere. Mi attraversano, mi correggono, creano dentro un temporale che porta conflitto e dolore. È la fatica di osservare l’impotenza di fronte al pensiero stesso.

Sì, provo invidia. E a volte antipatia per il risultato di un’altra persona. È un sentimento sgradevole prima di tutto a me stesso, ma capace di generare consapevolezza.bPerché in fondo ognuno di noi vive la propria vita, indipendentemente. Nel mio caso, spesso, l’invidia si intreccia con l’arroganza: l’arroganza di chi scrive, di chi osserva il lavoro altrui e sentenzia.

Eppure credo che l’arte non debba essere giudicata. Io stesso giudico solo quando sento dentro la competizione — e la competizione, per me, è un profondo malessere. Cerco di allontanarla, ma è difficile: nasce istintivamente, come un fuoco dall’interno del mio inferno.

Con il mio lavoro d’artista cerco benessere.
Parlo al mondo, lo racconto, lo trasformo.
Eppure a volte il mio linguaggio risulta arzigogolato, troppo complesso.

Ci sono artisti che sanno comunicare con immediatezza, che trovano la giusta metrica per farsi comprendere e amare. Io faccio più fatica, e forse la mia invidia nasce proprio da lì: dalla difficoltà di far emergere e diffondere il meglio di me senza che affiori ambiguità, irrazionalità o oscurità.

A volte allora mi affido a qualcosa di superiore, una forza che trascende tutto e che, nella sua essenza oggettiva, definisce ogni cosa.

Cos’ha scatenato tutto questo stamattina?
Una recensione. È stata una recensione.

Una recensione lunga e ben articolata di uno spettacolo che ho visto e che ho percepito in modo diverso da come è stato raccontato.

A me non è piaciuto. A me è sembrato un esercizio manieristico: un tentativo struggente di conquistare il pubblico con effetti, coriandoli, luci, borotalco, parole rapide e movimenti convulsi.

Io, invece, sono qui. Continuo a scrivere, a lavorare, dopo giornate turbolente, dopo che persino la mia pressione è “schizzata” come non accadeva da tempo. E ci sono ancora, come un mio personaggio: continuo, testardo, a camminare, a crescere, a non rimanere fermo in un format.

Sono naïf, sì.
Forse campagnolo.
Forse semplice.
Ma non grezzo.
Vedo altri che con poco sanno costruire un mondo, mentre io continuo a edificare lentamente il mio, anche se a volte resta sommerso.

Eppure parlo con me stesso, mi correggo, osservo questi meccanismi.

A volte mi distruggono, a volte aprono nuove vie creative.

È una necessità quotidiana.

E così, dopo il caos trasformativo di ieri, eccomi di nuovo al quartier generale di questa magnifica organizzazione chiamata FringenOff.

Sono ventisei giorni che ci lavoro: da quel 30 settembre scorso in cui salivo su un aereo diretto a Milano, carico come un mulo, e ancora oggi continuo a trotterellare, gaudioso, dentro questo viaggio.

Tutto ha una quadratura, tutto parte da un disegno, una idea, una simbologia, un senso.

Poco fa ho avuto due conferme: la mia soggettività è diventata oggettività.

E forse è questo il vero piacere — vedere le cose per ciò che sono, senza confondere realtà e fantasia.

Perché la mia missione sta proprio qui: nel trasformare la realtà in fantasia, nell’usare l’arte come strumento di trasmutazione.

Ogni scena, ogni parola, ogni gesto nasce dal reale per diventare simbolo, sogno, possibilità.

E questa missione segue di pari passo un impegno più grande: valorizzare l’individuo attraverso la cultura e il suo essere agente, capace di incidere nel mondo con la propria presenza, la propria voce, la propria differenza.

La fantasia la uso in scena. È lì che affronto il mostro a otto teste della realtà: le cause, gli effetti, le conseguenze.

E lo affronto con il mio essere, con la mia vita.

Ancora una volta, grazie.

Abbiamo attraversato un sentire, e lo abbiamo digerito.

Questa è la bellezza. Questo è, forse, il vero senso della vita, attraversare.

Capolavori

Un tempo per riuscire a realizzare i miei sogni facevo di tutto. Organizzavo di tutto, mi muovevo a destra e a manca. Facevo di tutto. Mi fidavo. Mi incartavo per fare tutto, non riuscivo a fermarmi. Ho fatto il commerciante. Ho fatto il cameriere. Ho fatto il venditore. Ho fatto il clown. Ho fatto il DJ. Ho fatto l’animatore. Ho fatto l’impiegato. Ho fatto l’addetto alle relazioni pubbliche. Ho fatto l’Art Director. Ho fatto lo scienziato musicale. Ho scritto copioni. Ho fatto perfino programmi televisivi laddove ero anchorman e laddove ero dietro la telecamera. Un tempo ho fatto anche il bancario. Ho fatto l’insegnante. Ho fatto il docente di costruzione eventi. Ho fatto tante cose cercando di trovare una mia identità o un mio spazio, e tutto quello che avevo dentro, è ciò che è la mia anima ancora oggi. Un tempo era compressa la macchinazione scenica. Ero come bloccato, ero come fermo. Era come se costruissi aree impraticabili, aree possibili rese impossibili allo stesso tempo. Come dire avere uno scrigno cui si sono perso le chiavi. Oggi faccio solo un paio di cose che ho citato prima, solo quelle necessarie. Capisco veramente tanto, sentire ogni terremoto. Andare in profondità mi viene più facile come capire cosa è stata la molla che ha fatto sì che io tornassi a pieno titolo nella formulazione e realizzazione di proposte culturali. Tornare a costruire spettacoli, mettere in scena mie drammaturgie. Qual è stata questa molla. Come è stata la bellezza che questo mi ha portato. E quindi da quale scintilla questo punto dinamico soddisfacente è ripartito. Faccio una considerazione: oggi mi sento libero di raccontarmi. Oggi sento che tutto questo gran travaglio si sta dichiarando tale. Si sta manifestando. Che si sta ponendo con un suo equilibrio, con una sua forza e allora ne parlo a me stesso come in questo racconto, con questa partitura composta di una serie di parole. Le motivazioni potrebbe essere il titolo. Sembra facile. La cosa che posso fare adesso è affidarmi all’universo alla preghiera alla bellezza di ogni incontro, alla bellezza di ogni situazione, la mia bellezza, la bellezza della mia famiglia, affidarmi alla bellezza di ciò che ho creato: i miei figli e di conseguenza i miei nipoti. Alla mia musica, al mio teatro. Ecco perché CAPOLAVORI. Mi ricordo come se fosse oggi nel 2017 quando ho scritto su la parte esterna di quello zainetto blu la scritta “capolavori”, l’incipit di una storia che continua. La dedizione che prosegue. Il flusso di un talento che sgorga sempre più prepotentemente. Ma la prepotenza non è un gesto invadente o discriminante. La prepotenza è la forza con la quale si esprime il talento. La forza intraprendente con la quale germogliano le idee, le mie in un confluire naturale; vengono alla luce, producono frutti come questo flusso di coscienza, naturalmente, in cui racconto di gratitudine, racconto l’avvicendarsi di alti e bassi racconto il mio porgermi spingermi, davanti ad ogni tipo di ostacolo: la banca che mi chiede di rientrare, le tasse da pagare, l’insofferenza di qualcuno che mi sta accanto, la linea educazione invasa, la SIAE da pagare, il debito da restituire, e l’aggressione che ricevo perché forse troppo romantico, troppo poeta, troppo fuori da contesti standard. Ieri ho visto uno spettacolo che mi ha molto colpito, che avrei voluto disegnare io tanti anni fa. Infondo per piacere una cosa ti ci devi riconoscere. Nello spettacolo di ieri mi riconosco, vedo i punti di forza, la libertà, la velocità di interpretazione e lo suggerisco. Allargo, bisogno di altro. Nel frattempo cammino per il mondo e penso quante persone hanno lo stesso mio tipo di travaglio quante, quante, vivono una ambiguità. Per anni ho vissuto un ambiguità. Per anni mi sono barcamenato. Ecco la frase che mi mancava “mi sono barcamenato” che vuol dire sono stato ambivalente manager e artista padre e artista cameriere e artista aggressore e artista aggredito e artista perdente e artista vincitore e artista povero e artistico e artistico conquistatore e artista conquistato e artista deluso e artista felice e artista artista. Tutte queste sfaccettature oggi mi completano oggi mi danno un senso di ciò che è vivo oggi sono risposte. Non esiste una risposta senza una domanda.

Luna

La luna è uno specchio che riflette il nostro cuore, la nostra anima. Fin dall’antichità, gli esseri umani hanno affidato i propri pensieri alla luna, parlandole e contemplandola per riflettere sulla propria vita e scrutare le profondità del proprio cuore. Quando le persone dimenticano di guardare dentro di sé, è certo che smetteranno di progredire. Inoltre, chi non si guarda dentro non riuscirà a sviluppare una profondità d’animo né carisma, e finirà per diventare vuoto e arido.

(Daisaku Ikeda Zenshu, vol. 73) #stile#nigeria#TonyEsposito#tamburi#luna#associazionecapolavori#poesia#kalimbadeluna#catania#teatro#rivoluzione#verità

aujourd’hui

E di nuovo cambio casa di nuovo cambiano le cose
E di nuovo cambio luna e quartiere
Come cambia l’orizzonte, il tempo, il modo di vedere
Cambio posto e chiedo scusa ma qui non c’e’ nessuno come meE stasera do a lavare il mio vestito per l’amore
Cambio donna e cambio umore stasera
E stasera voglio uscire che mi facciano parlare
Voglio ridere voglio bere, io stasera cambio amore, tutto quiMa sapere dove andare è come sapere cosa dire
Come sapere dove mettere le mani
Io non so nemmeno se ho capito quando t’ho perduta
Qui fioriscono le rose ma dentro casa è inverno e fuori noE vendo casa per un motore la soluzione è la migliore
Un motore certamente può attirare
La mia fantasia un po danneggiata da troppo tempo parcheggiata
E poi cambiare casa come cambiano le cose cosi’E gira gira gira gira si torna ancora in primavera
E mi trova che non ho concluso niente
Io l’amore l’avevo in mente ma ho conosciuto solo gente
E posso solo andare avanti fintanto che nessuno è come meE gira gira gira gira si torna ancora a primavera
E scopro che non ho capito niente
E allora io stasera do a lavare il mio vestito per l’amore
Cambio donna e cambio umore cambio numero e quartiere
Fintanto che nessuno è con me

Interagente

Scrivo spesso in movimento.
Il giorno prima di un lavoro, o in un momento di passaggio, cammino e parlo con me stesso: lascio che WhatsApp registri parole che il mattino successivo rileggo e rivedo. È una pratica, quasi una preghiera.

È il mio modo di osservare come mi pongo davanti alle cose — al lavoro, ai sentimenti, alle indicazioni vere o fasulle, alle provocazioni, alle richieste di ogni tipo. Mi interessa capire che ruolo abbia la fede in tutto questo: quanto incide nella mia capacità di restare entusiasta, vivo, nel movimento continuo.

Mi rendo conto che creo curiosità, in me e negli altri.

Questo continuo elaborare genera mondi: alcuni praticabili, altri solo immaginabili.

Sviscerare ogni istante come se fosse un corpo vivo, un tempo da comprendere, da attraversare. È la mia passione più autentica: comprendermi attraverso ciò che costruisco.

Il mio pensiero non si ferma mai. Fluisce, si modifica, cerca equilibrio tra l’irrazionale e il razionale, tra l’azione e la riflessione.

È una missione — forse anche un modo di sopravvivere.

Ogni dettaglio che arriva dall’esterno o dall’interno lo considero un segnale, una chiamata a dialogare con la mia coscienza.

Spesso scrivo in strada: tra un bus e il procedere, in attesa o in viaggio.

Chi mi sta accanto non sa che sto costruendo un testo, un pensiero che si dilata fino a stamattina, fino a oggi. È il mio modo di rallentare e inquadrare ciò che sento.

Nel lavoro credo profondamente nel fare, ma anche nel fermarsi a riflettere sul senso del fare.

Ogni progetto — teatrale o affettivo — deve attraversare un primo check di coerenza: parlare con la coscienza dell’anima.

Poi, naturalmente, arrivano le varianti, le deviazioni, le domande.

Non mi accontento mai. Amo aggiornare, riformulare, rinnovare: anche nei miei copioni.

Nello spettacolo L’Altro Ieri, per esempio, ogni replica è diversa. A volte basta cambiare una battuta per adattarla al luogo, al momento, alle persone presenti. È un modo per mantenere vivo il senso della direzione.

Ho conosciuto anche la disperazione e lo smarrimento.

Per questo cerco equilibrio: ricordare di essere stato disperato è una conquista.
Ci sono stati momenti in cui non sapevo con chi dialogare, in cui i giudizi mi schiacciavano.

Oggi, semplicemente, riconosco il valore dell’adesso.

Lo spettacolo L’Altro Ieri, rappresentato tra Milano e Catania, nasce da tutti quei vissuti. Non lo considero un capolavoro, ma un processo in evoluzione. Credo che sia questo, per me, l’atto più onesto: continuare a trasformare.

Nel lavoro, come nella vita, ci sono verità difficili da far emergere.

A volte la mia intraprendenza, la socialità, la voglia di abbracciare e superare gli ostacoli vengono fraintese.

Quando accadono cose belle, sento come se l’ambiente cercasse di neutralizzare, di riequilibrare.
Forse è così che funziona: come se “avere torto” fosse utile per restare vigili.

In quei momenti capisco quanto sia importante avere un testimone, qualcuno che veda e riconosca.

Scrivo e agisco con il senso di una missione, con la gratitudine per il mio fare, la mia bellezza, la mia dignità.

La dignità — come mi insegnava mia madre — è l’elemento primario.

L’artista, spesso, fatica a mantenerla, schiacciato dal desiderio di realizzarsi, ma è lì che si misura la sua verità.

Tenere la rotta, raccontare ciò che ci accade, trasformare la realtà in fantasia:
questo, per me, è il modo più profondo di essere artista.
Una percezione continua di sé, in relazione con il mondo.

Noi e il mondo, in reciproco movimento.