Ci sono istanti, nelle relazioni umane, in cui il mondo sembra inclinarsi appena: una parola si incrina, un gesto si perde, un’intenzione limpida si smarrisce proprio mentre tenta di raggiungere l’altro. In quei momenti si manifesta il limite — non come muro, ma come misteriosa membrana che separa e, allo stesso tempo, rivela.
Il limite è sottile come una vena di vetro: trasparente, fragile. È lì che ciò che è chiarissimo dentro di noi può diventare opaco nello sguardo dell’altro.
Un sentimento nato per incoraggiare può trasformarsi in un enigma.
Un avvicinarsi affettuoso può diventare l’ombra di un aculeo.
Quando parliamo lingue diverse, tutto questo si amplifica.
Quando viviamo abitudini diverse, tutto questo si amplifica.
La voce che si muove in italiano cerca un varco nel ritmo moldavo; l’altro si avvicina con fatica, con un coraggio silenzioso, provando a decifrare il paesaggio sonoro che gli offri.
La regola si infrange, si specchia, si confonde con ciò che l’altro porta.
E tu, che vorresti essere trasparente come acqua, diventi a volte un riflesso difficile da afferrare.
La lingua, allora, non è più soltanto grammatura di parole: è un corpo emotivo, un odore di casa, una postura dell’anima.
La regola, a sua volta, non è più abitudine rigida: è un movimento che tenta una nuova forma.
Eppure non è solo la lingua a intrecciare o confondere: è il sentire.
Non sono le regole a smontare il cammino, ma l’incontro tra due sensibilità che cercano un ritmo comune.
Chi vive la vita come un artista — oscillando tra altezze improvvise e profondi silenzi — percepisce ogni sfumatura come fosse una vibrazione sacra.
Un dettaglio microscopico diventa un segno, un accento, un piccolo destino.
Questa ipersensibilità è un dono, ma anche un terreno in cui il limite può aprirsi come un crepaccio.
È proprio lì che nasce l’istrice: la parte di noi che, pur volendo amare, rimane armata; quella che teme di ferire o essere ferita; quella che trattiene il calore sotto la pelle.
Ma dentro quegli aculei cova un rivoluzionario del sentire, pronto ad affacciarsi.
Ed è qui che si accende la Fede — non come atto religioso, ma come arte sottile:
la capacità di vedere una porta dove sembra esserci un muro.
La fede è un gesto interno che sposta la luce.
È l’allenamento a riconoscere l’ordine segreto nel caos apparente.
È un muscolo poetico: più lo usi, più diventa capace di trasformare lo pseudo limite in un varco.
Improvvisamente, ciò che appariva confuso rivela una sua musica.
Il fraintendimento diventa un luogo di conoscenza.
La distanza tra due lingue diventa un ponte luminoso, non più una frattura.
Il limite, allora, non è più il punto in cui ci fermiamo:
è il luogo in cui iniziamo a cambiare forma.
È l’attimo in cui il nostro istrice si toglie un aculeo e rivela, timido ma reale, il desiderio di contatto, scrive, per invitare a scrivere.
È la soglia da cui si intravede l’immensità.
Così la reciprocità non è un’equazione, ma un’opera d’arte: fatta di tentativi, chiaroscuri, risalite, incomprensioni, aperture improvvise.
E la fede, in tutto questo, è il pennello che dipinge un senso dove ancora non c’è.
Alla fine, ogni limite è solo un invito — un modo delicato e misterioso in cui la vita ci chiede di diventare più vasti, più attenti, più veri.
Siamo noi a decidere se ascoltarlo.







