Servitù

A chiare lettere. La spiegazione, o meglio, il senso dell’indisciplina parte da una storia antichissima. Una vocazione a cui aspirare nel conforme uso delle parole

Nel paese delle Destrezze, vicino al paese delle Similitudini, il Picchio Non so cosa fare si rivolge all’albero Non so cosa dire. “Buon giorno, mi racconti la storia dei virtuosismi?”; “forse è un po’ noiosa per chi non vuole ascoltare”; “ricordo che mi è piaciuta, ho voglia di riascoltarla”.
“Il Conte dei conti, un giorno davanti la finestra della sua casa maestra, sul tetto della collina, si allenava -Scrivere non è semplice, è un dono per noi prima di tutto, e poi per altri. È retorica solo se non libera spazio e non aggiunge colore. È un vanto ed un’avventura se ridistribuisce ogni cosa. Mette ordine ad ogni pensiero anche quando non immagini che ci sia- Poi il Conte si spostò davanti al camino acceso, continuò con i suoi pensieri -Tutto parte da una idea, minuscola e maiuscola, da un pretesto. La magia sta nel personalizzare le parole, intercambiare secondo la propria storia. La libertà è l’insalatiera della vastità, accoglie l’immaginario e lo rende infinito. Se ci lavori e lavori, il sogno manifesto ti sazia, come ballare, come fare ogni cosa. Come correre, viaggiare- Il Conte raccolse l’erba Inventiva, vivendo ciò che c’è, su una foglietta di appunti.”
L’albero Non so cosa dire in una pausa guardò gli occhi del Picchio “vuoi che continui? È solo l’introduzione. Dei virtuosismi si parla più avanti. Sei annoiato?”; “ti prego continua” rispose Non so cosa fare.
“Una storia dentro la storia”; mentre animali, persone, cose e perfino spostamenti d’aria si avvicinarono all’albero, attorno.
“Il Conte si spostò e andò al lago. Prese la sua barca, remò fino al centro e immaginò di essere fermo al semaforo, in una grande città. Le parole aspettano il verde”.
Tutti quelli vicino l’albero gridarono “oh” un oh, con l’accento esclamativo fortissimo, che si sentì fino a Stàltazia.
Lì vive la zia della cugina Vrinil. Disse “Senti che sta arrivando la storia? Che si sta costruendo?”; la nipote Motel rispose “è la fiaba, dei tempi, la stavamo aspettando. Ascoltiamoci”.
Non so cosa dire dopo un’altra breve pausa, riprese il suo racconto.
“Il campanaro Loretto suonava le campane in ordine e tutti erano abituati a ascoltarle ad orari precisi. Otto campane, ognuna con il suo spazio, ognuna con il suo tempo. La mattina suoni molto dolci in maggiore e la sera all’imbrunire un po’ aspri in minore. I componimenti erano facili da ricordare. Alba e tramonto. Arte dei suoni di circa 120″, ondi.
Loretto, fratello di Sorto, figlio di Agrippe e Matine, aveva ricevuto questo insegnamento dal signor Cioffrello il vecchio campanaro, quando il parroco della chiesa Arroccata era don Leonzio. Oggi il parroco è don Ugualdo e la chiesa è sempre Arroccata.
Non importa che tu conosca i toni o le note di una campana. Importa che tu sappia che un giorno Loretto volle costruire giri di parole con la voce delle 8 campane. Volle fare le giocolerie musicali per la dolce Virtuosa figlia del droghiere del paese, il signor Franoni, persona tanto per bene. Loretto non sapeva come fare a urlare tutto il suo amore. Usò il suo pensiero portatile. Mischiò i canti dell’alba e del tramonto, ciò che sapeva e aggiunse cose che inventava.
La gente del paese Cortile prima si stupì, poi, con un pizzico di attenzione, pose misura, si sintonizzò. In men che non si dica, gioì come fece Loretto al quale arrivò il sorriso di Virtuosa”
Anche nel lontano paese del Marinto conoscono questa storia.
Il fruttivendolo Gianto disse al pescivendolo Dreni mentre erano al mercato in un giorno di pieno sole “Che piacere unical è la vivacital delle cose nuove. L’autenticity che ognuno ha prima di sé stesso e poi del mondo”; e Dreni rispose “lo scatto ad esprimere in parole senza reticenze”
A Cvieni, paese vicino a Marinto, la sorella di Jely, Mestizia si stava lavando i capelli con il balcone aperto davanti lo specchio e pensò “questa è l’autorevolezza, la gemma dell’umorale dote dell’uomo.”
Al semaforo, al verde, le macchine ripartirono.
Dalla mutazione di ciò che è, ed è già altro, nuovo.
Il Conte dei conti raggiunse l’albero Non so cosa dire, lo abbracciò e richiamò tutti, tanti, che erano li attorno “mutiamo e mutiamoci oltre le cartoline, oltre immagini già vissute. Elaboriamo nuove elaborazioni con ogni incomprensibilità, come una lingua straniera”.
Non so cosa dire si scompigliò le fronde e aggiunse “cantiamo tutti una canzone”.
“Si cantiamo. Seguitemi” disse Mestizia che nel frattempo con i capelli puliti e asciutti era arrivata in mezzo a questa festa.
Tutti cantarono. “Alleniamo il sentire per cogliere nuovi scenari, la speranza e la diversità dell’adesso. Alleniamoci a consumare la retorica. Solo amore.” Lo ripeterono due volte, necessitante chiarezza, in coro
Nonno Abcdef concluse con la sua morale “a voi e per voi, per noi, loro, tutti” senza nessun amen (forse ci avevi pensato). Parole.
Nessuna scoperta, nessuna provocazione. È l’agire della sperimentazione, il divenire piacere di nuove scoperte con quel pizzico o grande voglia di rivoluzione”. Trovare il tesoro, gli obbiettivi posti.

Teatro

Bozza di soliloquio, terza , La retorica dell’avanguardia…

La necessità di creare arte teatrale che oltre ad appartenerci, è al pubblico, godimento, nutrimento, appagamento.

Questo è il punto di partenza di questo doveroso leggero e autoriale. Punto di domanda e coach espressivo.

Che cosa sia il pubblico e che cosa è rimasto del pubblico. Oggetto dell’equazione, il teatro è il dominio di due fattori, la scena e colui che la guarda. Senza uno di essi non esiste la rappresentazione. Meno male che voglia fare la sua parte. La penna sul foglio è il movimento liberatorio ancor prima del primo giorno di prove. Autobiografico. Il senso al personale manifesto. Mamma mia. Incoraggiante dalla finestra della pazienza.

Vedo la mia scrittura della voce, i tratti del progetto di armonizzazione espressiva, farsi spazio. Li vedo compiere una rivoluzione puntando il dito alla sfiducia. Ribalta l’approssimazione. Mi sento emarginato dall’emarginazione, io. Ho attraversato tempi melodrammatici, li ho con me. Valigie belle e brutte. Ho applaudito un esercito di apparenze, lirico in quanto magistrale.

Suggestioni maestre, magnifiche “esperienza” al plurale, sorprese.

Alternanza scuola lavoro con una palla di un laboratorio in agire, ho. Adesso. Sto. Recito.  Mi muovo dopo aver parlato con la luna, con la raffigurazione della mia spiritualità. Con ogni micro macro essenza di un voto, neanche fatto da me. Il voto del magnifico eloquente drammaturgico. Insito.

Insisto, so perché. Cause, Giove. Con questa propensione ho percepito, quel tempo, il mio disgusto. Da qui tutto accade, lo scrivo, due punti. Quattro anni fa circa. Teatro. Quella volta incuriosito oltre modo perché l’opera è rappresentata in uno spazio dedicato alla danza di Amici gestori. Luogo di movimenti, piccolo spazio di usuale dimenamento di corpi. Centro di produzione. Avevo visto, in diversi luoghi, l’attore protagonista e una volta il regista in locandina.

Quanto vi sono grato oggi maschere disumane, approfittatori di diseguaglianze, del bene placido del sonno dell’ignoranza e delle cattive compagnie. Avevo creduto alla sua, tua, ricerca. Dopo quella esperienza e dopo alcune altre, ho iniziato ad odiarti compassionevolmente come un fratello che sprona il livello di imbecillità a rientrare dal fuori misura in colui che ama.

Smetto di ascoltare i fuori posto. Pausa. Mi interrogo. Torno ad allora. Alla vocazione. Dopo appena 20’ avrei voluto bloccare la porcheria dilagante, il frastuono di voci. Volevo chiedere a gran voce di smettere di tradire insanamente e collegialmente i principi base del buon gusto. Stavo male, e ho continuato a soffrire fino alla fine dello spettacolo, atroce. Si può parlare di vuoto, inutilità, cialtronerie, assenza di mestiere, assenza di amore, assenza di vocazione. Sembra facile lamentarsi, non lo è.

Di cosa ti spacci? Dico a me. Dentro c’è una responsabilità grande. In essa c’è lo spauracchio del giudizio e del gioco degli specchi. Mi sto giudicando? Mi lamento, fuggo? Cosa sta accadendo? Mi sono vomitato addosso ciò a cui ho assistito. È roba mia?

Il mio anagrafico in fatto di fruizione e partecipazione ad ogni sorta di arte mi ha appena messo una mano sulla spalla in segno di ascolto e approvazione. Il palcoscenico ha spalancato le sue braccia perché ha sentito manifesta la mancanza di dignità. Sa di successi e insuccessi.

Conosco il senso da borghese maratoneta su ogni cosa che si muove con il senso dell’agire, il camaleontico del costume di scena. I sapori autentici, quelli maiuscoli anche quando sono minuscoli. La luce non soltanto fonte, soprattutto riflesso, armonia.

Il like odierno è vuoto colorato. Lo scarabocchio confuso. Alimento colloqui con la mia anima imbarbarita.

Eccole le anime gemelle. Le relazioni rimodulanti. Ho. Qua.

Decidere ed essere accolto dalla vita, la mia, nel voler mettere in scena il teatro al pubblico. Paroloni. Verità

La grande sfida della rappresentazione.

Quando senti una tale indignazione, parti dal me stesso.

Quando senti che la tua vocazione è stata offesa, ascolti il silenzio acido del sudore. La poesia non basta, l’unica cosa agire nel reagire.

Nuova esperienza. Assieme di stimoli configurati contemporanei. Aree di pensieri per altri pensieri. Suggestioni da suggestioni per suggestionare. Suggestioni, suggerite dal suggeritore quando non ce bisogno perché la tua parte la conosci bene, più che bene.

Voce guida ”la stabilità mi spaventa. È un problema mio” La sincerità è impagabile.

Come “l’impossibilità di conciliare l’amore con il nostro lavoro.”

Certi impulsi rimangono in una loro amorevole confusione, incoraggi amore.

Vedo trasformata la tempesta in luci dette. Fruizione di sconosciuti. La loro spesa per casa è mia responsabilità.

 

 

Didascalia foto da FB: Federica Rosellini, nella solitudine dei campi di cotone, ph_Salvatore Pastore