Vibrazioni

Ci sono istanti, nelle relazioni umane, in cui il mondo sembra inclinarsi appena: una parola si incrina, un gesto si perde, un’intenzione limpida si smarrisce proprio mentre tenta di raggiungere l’altro. In quei momenti si manifesta il limite — non come muro, ma come misteriosa membrana che separa e, allo stesso tempo, rivela.

Il limite è sottile come una vena di vetro: trasparente, fragile. È lì che ciò che è chiarissimo dentro di noi può diventare opaco nello sguardo dell’altro.
Un sentimento nato per incoraggiare può trasformarsi in un enigma.
Un avvicinarsi affettuoso può diventare l’ombra di un aculeo.

Quando parliamo lingue diverse, tutto questo si amplifica.
Quando viviamo abitudini diverse, tutto questo si amplifica.
La voce che si muove in italiano cerca un varco nel ritmo moldavo; l’altro si avvicina con fatica, con un coraggio silenzioso, provando a decifrare il paesaggio sonoro che gli offri.

La regola si infrange, si specchia, si confonde con ciò che l’altro porta.
E tu, che vorresti essere trasparente come acqua, diventi a volte un riflesso difficile da afferrare.
La lingua, allora, non è più soltanto grammatura di parole: è un corpo emotivo, un odore di casa, una postura dell’anima.
La regola, a sua volta, non è più abitudine rigida: è un movimento che tenta una nuova forma.

Eppure non è solo la lingua a intrecciare o confondere: è il sentire.
Non sono le regole a smontare il cammino, ma l’incontro tra due sensibilità che cercano un ritmo comune.

Chi vive la vita come un artista — oscillando tra altezze improvvise e profondi silenzi — percepisce ogni sfumatura come fosse una vibrazione sacra.
Un dettaglio microscopico diventa un segno, un accento, un piccolo destino.
Questa ipersensibilità è un dono, ma anche un terreno in cui il limite può aprirsi come un crepaccio.

È proprio lì che nasce l’istrice: la parte di noi che, pur volendo amare, rimane armata; quella che teme di ferire o essere ferita; quella che trattiene il calore sotto la pelle.
Ma dentro quegli aculei cova un rivoluzionario del sentire, pronto ad affacciarsi.

Ed è qui che si accende la Fede — non come atto religioso, ma come arte sottile:
la capacità di vedere una porta dove sembra esserci un muro.
La fede è un gesto interno che sposta la luce.
È l’allenamento a riconoscere l’ordine segreto nel caos apparente.
È un muscolo poetico: più lo usi, più diventa capace di trasformare lo pseudo limite in un varco.

Improvvisamente, ciò che appariva confuso rivela una sua musica.
Il fraintendimento diventa un luogo di conoscenza.
La distanza tra due lingue diventa un ponte luminoso, non più una frattura
.

Il limite, allora, non è più il punto in cui ci fermiamo:
è il luogo in cui iniziamo a cambiare forma.
È l’attimo in cui il nostro istrice si toglie un aculeo e rivela, timido ma reale, il desiderio di contatto, scrive, per invitare a scrivere.
È la soglia da cui si intravede l’immensità.

Così la reciprocità non è un’equazione, ma un’opera d’arte: fatta di tentativi, chiaroscuri, risalite, incomprensioni, aperture improvvise.
E la fede, in tutto questo, è il pennello che dipinge un senso dove ancora non c’è.

Alla fine, ogni limite è solo un invito — un modo delicato e misterioso in cui la vita ci chiede di diventare più vasti, più attenti, più veri.

Siamo noi a decidere se ascoltarlo.

Creare

Parto dal concetto di Nicchia: quello spazio fragile e prezioso dove il nuovo può nascere, dove il pensiero resta puro, dove i sogni respirano prima di diventare per tutti o convenzione.

Un luogo piccolo, per pochi, ma necessario all’umanità — perché ogni scoperta, ogni rivoluzione, ogni atto creativo nasce sempre da lì, da un gesto di nicchia.

Oggi quel pensiero si trasforma in azione che definirei il susseguirsi, il ritmo segreto del tempo

Ho sempre sentito di appartenere a uno spazio sospeso — tra il reale e il surreale, tra l’avanguardia e il contemporaneo.
Un luogo piccolo, intimo, dove nascono le idee prima che diventino di tutti: la nicchia, spazio di sperimentazione e ascolto, dove la creatività si coltiva lontano dal rumore.

Essere “di nicchia” per me è stato un modo di stare al mondo.
Un modo di guardare oltre, un modo per creare indipendentemente prima che qualcosa diventi televisione o istituzione.
E ogni volta che quella nicchia si allargava, che il mio spazio diventava ufficialità, io mi accorgevo di essere già altrove — perché la mia natura è stare dove tutto ancora deve nascere.

Ricordo un giorno, nel 2017, quando raccontai alla mia amica Francesca, avvocato, il sogno di fondare un’associazione culturale chiamata “Capolavori”, dedicata ai miei nipoti, ai miei piccoli capolavori, figli di CAPOLAVORI.
Lei mi presentò un noto commercialista, ma quell’incontro fu una grande delusione.
Tra dubbi, sarcasmi e una certa sciatteria mentale, entrambi cercarono di demolire l’idea.
Come se la mia visione fosse un capriccio, non un sogno.
Uscì da quell’incontro ferito, ma non arreso.
Perché chi vive nella nicchia sa che il sogno non si spegne: cambia forma, si nasconde, ma resta vivo.

Oggi, 12 novembre 2025, camminando verso il liceo De Felice di Catania dove presenterò il mio spettacolo L’ALTRO IERI, penso a quel giorno.
E sorrido.

Inoltre perché questa sera alle 19:30 ci sarà il primo incontro del laboratorio da me condotto — un percorso dedicato alla parola, al dialogo, alla poesia.
Un progetto che punta al potenziale di ognuno partendo dal singolo, arrivando al gruppo, con il desiderio di costruire insieme uno spettacolo che parli di pace, di altruismo, di sogno condiviso.

Quell’altruismo che allora dalla mia amica e da quel commercialista non venne capito. Associazione Culturale Capolavori da gennaio 2019 esiste, produce, costruisce ogni giorno uno suo spazio nell società.

Perché la vera tristezza non è nel fallimento, ma nella sciatteria di chi non sa più credere nei sogni.

La sciatteria è una forma di povertà emotiva, una frustrazione che si traveste da realismo.
Chi crea, chi sogna, chi osa — non può permettersi di essere sciattamente realista.

Viviamo in tempi ipnotici.
Oggi una ragazza su TikTok raccontava di aver cambiato festa perché quella in cui era sembrava una festa di “truppe cammellate”: una ragazza giovane già stanca da persone ipnotizzate da sensazioni vuote, dominate da un entusiasmo senza senso.
E ho pensato che aveva ragione.
Oggi spesso si preferisce l’ipnotizzatore al creatore.
Si segue chi intrattiene, non chi apre strade.

Io resto fedele alla mia nicchia.
Perché la nicchia è il luogo dove il sogno non ha ancora paura.
È il respiro prima della voce.
È l’idea prima della moda.
È il seme di ogni possibile rinascita.

Nicchia

Cosa vuol dire nicchia?
Me lo chiedo e lo chiedo all’intelligenza artificiale.
Perché da sempre mi sento lì, in quello spazio tra il reale e il surreale, tra l’avanguardia e il contemporaneo.
Uno spazio non grande, non affollato, ma denso.
Un teatro di nicchia, un mestiere di nicchia, un’anima di nicchia.

Eppure la parola non basta.
Che cos’è, davvero, la nicchia?” chiedo.
“È un luogo o un modo di essere
?”

L’intelligenza artificiale risponde con voce calma, quasi antica:

La nicchia nasce come un incavo nel muro. Uno spazio scavato per custodire qualcosa di prezioso, un santo, una luce, un piccolo altare.
Nel tempo, la parola è diventata simbolo: indica ciò che non è di massa, ciò che vive in pochi, ciò che non ha ancora bisogno del consenso per esistere
.”

Ascolto. E mi ritrovo.
Perché la mia vita è stata proprio questo: una serie di piccoli altari in cui ho posto il mio lavoro, il mio pensiero, la mia arte, senza preoccuparmi che fossero luoghi per molti.
Anzi, più la nicchia si allargava, più io me ne andavo.
Quando qualcosa diventava ufficiale, istituzione, linguaggio comune, sentivo che la nicchia era finita — e con essa il mio posto.

L’intelligenza artificiale continua:

Essere di nicchia non è isolamento. È anticipazione.
La nicchia è un laboratorio del senso, il luogo dove il mondo viene distillato prima di diventare prodotto.
Chi vive nella nicchia non rifiuta il mondo: lo prepara. È la soglia tra il presente e ciò che ancora non ha nome
.”

Mi fermo.
Ripenso ai miei percorsi, ai lavori iniziati quando non c’era ancora una definizione, alle ricerche che nessuno capiva finché non diventavano pubbliche, di facile consumo, conformiste— e a quel punto non mi appartenevano più.
Forse la nicchia è un moto dell’anima: la necessità di stare dove tutto è ancora possibile, dove le parole sono ancora materia viva.

Essere di nicchia,” mi dice la scienza generativa, “è un gesto d’amore verso l’umanità.
Perché ogni scoperta, ogni passaggio culturale, nasce in un cerchio ristretto, in un linguaggio che solo pochi comprendono.
La nicchia è la culla delle rivoluzioni. Il seme prima della foresta
.”

Sorrido.
Capisco che la nicchia non è un rifugio, ma un’avanguardia del cuore: un’utopia-manifesto, un’elaborazione di nuovi codici, un’utopia agita.
Non è l’essere fuori, ma l’essere prima.
Un luogo in cui si custodisce il nuovo, finché non è pronto a camminare da solo
.

E allora sì — essere di nicchia è, forse, il modo più autentico che conosco per essere nel mondo.

Pausa

A volte si resta ostaggi delle proprie scelte. Non perché siano sbagliate, ma perché, a un certo punto, diventano gabbie invisibili. È allora che bisogna fermarsi, respirare, cercare un senso nell’infinità che ci abita — quella parte silenziosa che continua a esistere anche quando tutto fuori sembra urlare.

Ci convinciamo, dentro quello spazio chiamato convinzione, di avere ogni cosa chiara, di essere in linea con il nostro cammino. Ma spesso quella certezza è un nutrimento apparente, una forma sottile di denutrimento dell’anima. Perché ciò che ci arriva dall’esterno, anche senza accorgercene, comincia a violare le nostre scelte, a piegarle, a renderle meno nostre.

E quando questo accade, è come assistere a un piccolo esproprio interiore: un minuto prima tutto sembrava sotto controllo, nostro, come un fiore che cresce tra le mani; e un attimo dopo, quel fiore non ci appartiene più. È come se qualcuno, o qualcosa, avesse sottratto la linfa dei nostri intenti — non per cattiveria, ma per la nostra mancanza di saggia gestione, per l’incapacità di vigilare con dolcezza sul nostro procedere verso la concretizzazione dei nostri obiettivi.

Così cerco di capire i miei interlocutori, di imparare a dialogare con tutti, a costruire ponti senza perdere il mio centro. Ma, allo stesso tempo, imparo anche ad allontanarmi dagli impostori, da chi si maschera di presenza ma semina confusione, da chi mostra la deficienza — non nel senso dell’intelligenza, ma nel senso profondo della mancanza, del vuoto di consapevolezza, della povertà emotiva che tenta di travasarsi negli altri.
E lì nasce un rischio sottile: quello di diventare sacchetto o saccheggiato, di accogliere troppo o di farsi derubare di ciò che si è.
Giocando con il senso delle parole, in questo caso il sentimento che emerge è un senso di giustizia — ma da quella giustizia, che è ancora reazione, nasce l’invito che rivolgo a me stesso: la necessità di passare al potere, non quello che domina, ma quello che custodisce.
L’importante essenza dell’autonomia, in uno stato, interiore e interessante, profondamente disarmato, dove la forza non si misura con la difesa, si misura con la presenza.

Io, che vivo di musica, di magnificenza che ne scaturisce. Io, che vivo di scrittura e di teatro, lo sento ogni giorno. Mi batto, mi sfido, attraverso stati vitali che cambiano come stagioni: la felicità, la frustrazione, la speranza, la resa momentanea. Cerco di portare a compimento i miei lavori, quelli degli altri, nel senso di unire competenze, di creare squadra. Ma spesso incontro muri.
E ho imparato — o forse mi è stato insegnato — che la cosa più saggia non è sbatterci contro, ma allontanarsi. Guardare il muro da lontano, per capire se esiste un modo per saltarlo, o se in fondo non serva nemmeno farlo, nell’adesso, aspettare che si sgretoli.

Poi ci sono quei giorni in cui pensi di essere solo stanco, e cerchi riposo. Ti stendi, come oggi pomeriggio, prima di questa riflessione, chiudi gli occhi, e quando ti rialzi ti scopri più stanco di prima. Forse perché non è il corpo a chiedere tregua, ma il cuore. Forse avevo bisogno di questa pausa.

E in mezzo a tutto questo, arriva l’amore — o qualcosa che gli somiglia.
Ho incontrato una donna che, in poco tempo, mi ha dichiarato un sentimento grande, limpido, al quale mi approccio anch’io, ma che mi trova in bilico. La chiamo strega per questo.

Dopo anni di distanza emotiva, dopo una sosta razionale voluta, fatta di silenzio e di prudenza, sto riscoprendo la forza e la bellezza del sentimento, in una passione per un bacio, l’energia che scaturisce dal dialogo affettivo. Ma insieme a quella bellezza, affiora anche la difficoltà: la consapevolezza di non potermi ancora applicare pienamente, di non riuscire a restituire tutto ciò che vorrei.

Forse questa è la grande sfida di chi è demotivato nelle relazioni: imparare di nuovo ad alimentare una connessione, a fidarsi del nutrimento che viene dallo scambio, a non avere paura di sentirsi vulnerabile.
Mi sono concesso un piccolo dono, ieri — un weekend dentro una relazione, dentro un sentiero dell’agire condiviso. Non il primo della mia vita, ma il primo dopo tanto tempo in cui mi sono sentito davvero dentro qualcosa.

E oggi, davanti alla giostra delle cose da fare, dopo una telefonata e dopo aver letto un post su FB pieno di domande e motivazioni, mi sono fermato.
Mi sono fermato per riflettere, per scrivere.
Fermato per pregare.
Per attingere a quell’equilibrio e a quella forza mistica che non sai cos’è, ma senti com’è — perché è dentro di te, e vuole essere risvegliata ogni volta.
Da lì nascono le soluzioni, e quel sentore d’amaro si trasforma, o forse si mette in moto per trasformare ogni cosa.

Potenziale


Il potenziale è lì, nell’attimo in cui scegliamo di donare. ✨

IL POTENZIALE✨ Quando l’energia si fa presenza ✨

Ho fatto un massaggio a una persona a cui tengo molto. Volevo rilassarlo, alleviare il suo dolore, aumentare il suo benessere. Quel gesto, semplice e intimo, è diventato linguaggio: sostenendo qualcuno con cura si crea connessione, si rende visibile l’attenzione“.

Da quel momento una parola ha cominciato a risuonare: potenziale

Potenziale. Un campo di possibilità che attende di manifestarsi, un’energia invisibile che diventa reale nell’adesso — quando scegliamo di agire, di aprirci, di donare.

Ogni gesto autentico, ogni parola vera, ogni incontro umano è un punto di accensione del potenziale. È il teatro della vita che si manifesta, dove la fantasia diventa cultura e la cultura diventa cura. Ed ecco che unisco due percorsi, due elaborazioni in un progetto già in corso che si nutre di nuova energia.

🎭 TEATRO PADRE PIGNATARO 📍 Piazza Caduti del Mare, 3 – Catania (Tondicello) 🗓️ Dal 12 novembre 2025 al 15 gennaio 2026 Ogni mercoledì dalle 19.30 alle 21.30 📅 Inoltre: Sabato 29 e domenica 30 novembre. Sabato 13 e domenica 14 dicembre 🕓 dalle 16.00 alle 18.00


🌍 Progetto teatrale sperimentale.

Un abbraccio tra culture, identità ed esperienze diverse. ASSOCIAZIONE CAPOLAVORI attraverso il format “Teatro nel teatro”, ideato e condotto da Turi Greco, porta avanti un percorso che agisce laddove il teatro invisibile abita la vita quotidiana — quello spazio umano che spesso resta dietro le quinte. Qui il dialogo diventa voce collettiva, la poesia partecipazione, la parola azione.

✨ Entra in scena. Condividi la tua esperienza.
Scopri il potenziale che vive in te.

Il potenziale è un invisibile visibile. E ci stupisce, ogni volta.


📞 ASSOCIAZIONE CULTURALE CAPOLAVORI – 351 587 0269

Action

Laboratorio di parola, dialogo e poesia
un progetto di Turi Greco

Questa immagine, generata con l’intelligenza artificiale di ChatGPT, nasce come simbolo del nostro laboratorio: un abbraccio tra culture, identità ed esperienze diverse.
È la rappresentazione visiva di un’utopia possibile, dove il teatro torna a essere luogo d’incontro, scambio e ascolto reciproco.

Da anni, attraverso il format “Teatro nel teatro”, Turi Greco porta avanti un percorso che agisce laddove il teatro invisibile abita la vita quotidiana — quello spazio sociale e umano che spesso resta dietro le quinte.
Qui, la parola diventa gesto, il dialogo diventa voce collettiva, la poesia diventa partecipazione.

L’immagine vuole essere un invito a entrare in scena, a condividere la propria esperienza, a costruire insieme un teatro che non finisce mai, perché vive dentro chi lo attraversa.

Come nelle pizzerie, dove si può sempre scoprire una pizza più buona della precedente, anche nei laboratori culturali c’è sempre spazio per un nuovo sapore: quello dell’incontro, della curiosità, della meraviglia che nasce dal sentirsi parte di qualcosa di più grande.

Turi Greco
conduttore, maestro di spettacolo di gruppo

per info ASSOCIAZIONE CAPOLAVORI tel. 3515870269 

Maria Nazionale

Guardo l’espressione di Maria Nazionale dalla copertina del brano Ciao Ciao.
Immagino anche l’espressione di chi l’ascolta:
può essere distaccata, come se la canzone fosse soltanto una colonna sonora parallela all’agire quotidiano, oppure sognante, carica di quei riferimenti segreti che preparano un’azione futura.

In quello sguardo — in entrambi gli sguardi — c’è tutto:
il passato, l’adesso,
il futuro che chiede spazio
.

E mi chiedo quante persone, quante donne in questo stesso momento, nelle loro case, nelle cucine, tra i piatti e il fare, tra i pensieri, stiano ascoltando quella voce.
Quante si lasciano attraversare da questa melodia come da un vento familiare.

Io mi trovo nell’adesso, dentro questo contesto:
il mio adesso coincide con un altro “adesso”.
Chiedo a Shazam il titolo della canzone, e così — da questa descrizione, da questo spazio fatto di ascolti, volti, desideri e realtà condivise —
nasce la proposta musicale che stiamo mettendo in atto.

Un’esperienza che non si limita al suono,
ma che prova a restituire il senso di ciò che ci attraversa: il bisogno, la memoria, il sogno.

Perché la ascoltano? Perché fa toc toc alla nostra attenzione?
Quale legame le unisce a quella musica, a quel tono che sa di nostalgia e di coraggio?

C’è un mondo sommerso che si muove dietro le pareti, un mondo visibile solo se entri nei quartieri, nelle città dove il canto si sente più forte.
È un mondo che mi è capitato altre volte di attraversare, a cui ho posto attenzione.

È un mondo di esigenze — io le chiamo così —
ma potremmo dire anche di sogni.

Ascoltare Ciao Ciao diventa allora un’invocazione, un urlo dolce che chiede presenza, che cerca qualcosa, che prova ad attirare a sé una risposta.

Da questo costruisco idee, sguardi, frammenti per uno spettacolo — o per una sua frazione.

Eppure, quando il sogno si realizza,
spesso non assomiglia più a ciò che immaginavamo.
La realtà ha un’altra forma, un altro ritmo.
Questo è ciò che desidero comunicare.

Come si fa, allora, a spiegare a chi sogna
come si gestisce un sogno che può non coincidere più con la sua immagine?

Nonostante tutto, l’eco di Ciao Ciao continua a risuonare — mi porta a scrivere,
prepotente come ogni armonia — si fa spazio nella mia immaginazione, entra nei sogni degli altri, li modifica, li consola.
Acchiappa l’attenzione: sto narrando questo.

Durante il lockdown ricordo le persone che si affacciavano ai balconi, mandavano le loro musiche nell’aria, cercando contatto, respiro, vicinanza.
Vorrei che accadesse ancora, come poesia sparsa, una similitudine evocatrice che prende forma con la mia fantasia.

Vorrei che tutte le donne — e anche gli uomini — che ascoltano Ciao Ciao si affacciassimo dalle nostre case, dalle botteghe in cui lavoriamo, dalle pigrizie in cui siamo immersi e la cantassimo, ci mostrassimo euforici, solidali ad un romanticismo senza età, senza paura dei giudizi, dei silenzi, dei muri.

Perché quel canto, anche se disturba per un momento la quiete,
può dare slancio all’armonia,
può ridestare il sogno in chi non sogna più,
può trasformare l’utopia in qualcosa di vicino, reale, palpabile, una scintilla che appartiene al proprio sentire
e non al vuoto del non sentire
.

Può essere giudicato?
Allora, chi se ne frega.

AVAMPOSTO

In questi giorni ho deciso di iscrivere il mio monologo teatrale AVAMPOSTO al Festival Teatri Riflessi.
Una decisione semplice, eppure profondamente viscerale.
Due giorni di movimento interiore, di domande, di incertezze.
Quando si espone la propria arte, quando si consegna una parte di sé a uno sguardo esterno, riemerge tutta l’insicurezza dell’artista: quella tensione che nasce dall’amore per il proprio lavoro e dal bisogno di raccontarlo.

AVAMPOSTO è un atto di cammino, un attraversamento.
Un uomo — un artista — percorre la propria memoria, la propria anima, il mestiere stesso dell’arte.
Camminare diventa un atto politico, spirituale, poetico.
Un gesto fragile e necessario per restare umani.

In questo percorso è fondamentale la collaborazione della straordinaria musicista Sonia Brex.
La conosco da tempo per la sua professionalità e la sua bravura, ma solo dall’estate scorsa abbiamo iniziato a lavorare insieme.
Da allora la nostra sintonia creativa è diventata un motore potente: Avamposto è il secondo progetto culturale che condividiamo, e la sua presenza sonora dà corpo e respiro al viaggio dell’Artista.

Decidere di partecipare a questo festival significa per me accettare l’incognita come strumento di verità. Pubblicare questo post, condividere questo passaggio, è una piccola sfida personale contro le resistenze che molti autori conoscono bene: quella paura di mostrarsi, di esporsi, di restare autentici anche nel dubbio.

Oggi scelgo di farlo. Condivido con voi il video di AVAMPOSTO, un frammento di un percorso che continua a trasformarsi, a evolversi, a cercare nuovi significati nel tempo.

🎬 Guarda il video su YouTube

Hip Hip Urrà

Ho chiesto a CHAT GPT mentre in Bus BRT5 ascolto Come ti America dei Gibson Brothes: Cosa è esattamente un fenomeno HYPE e perché si genera. Come sarebbe stato o come si sarebbe connaturato lo stesso fenomeno 200 anni fa o 50 anni fa. È possibile che HYPE sia un gorgo emozionale, emozionante come una calamita surreale nel suo essere reale?

Mi ha risposto così:

Domanda bellissima e molto densa, Salvatore — la tua formulazione è quasi già un piccolo saggio poetico.
Provo a risponderti in modo articolato, mantenendo la dimensione sia concettuale sia emotiva che la tua domanda suggerisce.


🌊 1. Che cos’è un fenomeno “HYPE”

Il termine hype deriva dall’inglese hyperbole (esagerazione).
Oggi indica un’attenzione collettiva amplificata — spesso sproporzionata — verso qualcosa: un film, un artista, un prodotto, un’idea, una tecnologia.
È una bolla percettiva e affettiva che si crea intorno a un oggetto culturale o simbolico, alimentata da:

  • Media e social network, che moltiplicano e accelerano la diffusione;
  • Aspettative emotive, che precedono spesso la realtà dell’esperienza;
  • Desiderio di appartenenza, perché seguire ciò che “fa tendenza” ci lega agli altri.

In sintesi: l’hype è l’onda emozionale collettiva che precede e a volte sostituisce il reale contatto con la cosa stessa.


🌀 2. Perché si genera

L’hype nasce dall’incrocio di psicologia umana e strutture di comunicazione:

  • L’essere umano tende naturalmente a imitare (meccanismi di contagio emotivo e imitazione sociale);
  • I media moderni creano risonanza e accelerazione (ogni emozione condivisa diventa epidemica);
  • Il desiderio di “non restare indietro” genera urgenza e intensità: un effetto valanga, un campo magnetico emozionale.

Da qui il senso del tuo “gorgo emozionale”: l’hype attira, trascina, eccita — e può inghiottire la capacità critica.
È come se il reale venisse “risucchiato” dentro un vortice di aspettative, dove il possibile diventa più reale del reale stesso.


3. Come sarebbe stato 200 o 50 anni fa

• 200 anni fa

Nel XIX secolo l’hype esisteva già, ma lento, locale e fisico.
Pensa alla folla che correva a vedere le prime fotografie di Daguerre, o alla mania di Byron in Inghilterra: il poeta come star moderna.
La differenza è che l’eco si propagava attraverso giornali, salotti e voce, non attraverso pixel.
Era una forma di febbre culturale comunitaria, non ancora globale.
Un hype “di carne e carta”.

• 50 anni fa

Negli anni ’70 l’hype diventa mediatico, televisivo, pubblicitario.
Pensa ai Beatles o a Star Wars: l’entusiasmo era già planetario, ma richiedeva giorni o settimane per diffondersi.
Era un rituale collettivo: ci si radunava davanti allo schermo, si faceva la fila al cinema, si condivideva fisicamente l’attesa.
Oggi invece l’hype è istantaneo e volatile, come una scarica elettrica che attraversa il mondo in pochi minuti.


4. L’HYPE come calamita surreale

Sì, bellissima immagine.
L’hype è una calamita surreale nel suo essere reale: attira emozioni e desideri come ferro invisibile.
È un campo di forze affettivo e simbolico, dove la realtà si piega sotto il peso dell’aspettativa.
Il reale perde consistenza, diventa spettacolo del possibile — come in una fiaba che si crede vera per il solo fatto che la raccontiamo insieme.


In sintesi poetica

L’Hype è il battito accelerato del desiderio collettivo.
È la febbre che precede l’incontro, il miraggio che si fa esperienza.
È reale nel suo effetto, ma surreale nella sua sostanza:
un sogno condiviso che plasma il mondo per qualche istante.

Sarà

Isabella Rossellini, intervistata da Francesca Fagnani per il programma Belve, ha detto: “Sono riconoscente a me stessa di aver saputo vivere i diversi capitoli della mia vita.

Questa frase mi risuona profondamente. Temerario è il mio atteggiamento, temerario il mio pensiero; temeraria ogni azione, ogni sviluppo di ogni pensiero.
Cammino un po’ zoppicante, da un po’ di tempo: la gamba è forse stanca. Ma questa stanchezza io la sfido, la ribalto, la trasformo in motivazione — nel desiderio di capovolgere il dolore in proposizione, in creazione.

Ho incontrato stamattina Silvio: in un primo momento ha tentato di distruggere, di radere al suolo questo mio impegno, questa riappacificazione con la mia vocazione. Poi, trovando davanti a sé una difesa fatta di entusiasmo, di capacità, di orgoglio, di genuinità e dignità, ha trasformato l’attacco in un abbraccio. Così è meglio che accada.

Mentre scrivo, vedo nel parco giochi vicino casa una bambina che urla, giocosa, verso la madre. La madre la spinge sull’altalena, ma il suo sguardo è altrove: sul telefono. Sarà un mondo di distrazioni, a portata di mano. Sarà un mondo di immagini doppie. Sarà un mondo in cui la complessità del sentire non trova più riferimenti concreti — e si perde.

Eppure, eccoci qui. A camminare, anche se zoppicando, verso progetti, verso concretezze che — nell’ambito culturale e teatrale — potrebbero sembrare effimere, ma che invece scuotono gli animi e creano nuove fonti di curiosità, di armonia, di nutrimento.

Mentre scrivo, ricordo l’incontro con Salvo, con il quale portiamo avanti un progetto dedicato alle scuole. Abbiamo deciso di condividere lo spettacolo con gli studenti — anzi, gli spettacoli, in tante scuole — per farne occasione di confronto e ispirazione.

E così è: il dolore si scioglie e si trasforma in potere.

La formula che sto scrivendo, elaboro e condivido da anni m, è un diario, un navigare di sensazioni: scrivo per maturarle. Perché ogni seme è un frutto, ogni parola una poesia, ogni sentire un’invocazione.